“Solo contro tutti, ma sono invincibile” recitava un vecchio cartone animato giapponese e l’affermazione ben si attaglia all’impresa di Tadej Pogacar (nella foto della homepage), vincitore a sorpresa dell’ultimo Tour de France. Oggettivamente in pochissimi avrebbero scommesso sul 21enne sloveno, soprattutto a metà strada, quando a fronte di un Roglic (sotto nella foto) sorretto da una squadra che appariva superiore a tutti gli altri, Pogacar scontava la sua inesperienza, emersa nella perdita di 1’21” causa dei ventagli di vento nella tappa di Louron e soprattutto di una squadra mal costruita e sfaldatasi col passare dei km. Pian piano però Pogacar è cresciuto, a rosicchiato secondi su secondi grazie anche a una condotta strategica del team olandese di Roglic che ha fatto difetto. Inspiegabile ad esempio la scelta del team di mandare l’americano Kuss all’attacco verso il traguardo di Méribel spianando la strada al successo del colombiano Lopez Moreno, con Roglic rimasto a guardare un po’ troppo. E’ vero, in quella tappa ha rosicchiato alla fine qualcosa al connazionale, ma ha fatto anche vedere che il suo serbatoio di energie era quasi a secco e Pogacar ne ha tratto nuovo slancio per la cronometro finale, quella che tutto doveva decidere e tutto ha deciso.
Alla fine la doppietta slovena c’è stata, ma a parti invertite, ora si celebra un nuovo campione e Roglic, che puntava senza mezzi termini al ruolo di numero 1 dei grandi Giri vista anche la debacle di un Egan Bernal mai realmente competitivo, ancora una volta paga una pessima lettura della corsa, esattamente com’era avvenuto nel 2019 al Giro d’Italia regalato a Richard Carapaz. Allargando il discorso però, emerge un livellamento in alto con molti atleti pronti a sfruttare ogni occasione, ma senza un dominatore assoluto (magari in attesa della completa ripresa e maturazione di Evenepoel), un fatto che se da un lato è sinonimo di spettacolo, dall’altro lascia anche la porta aperta a sospetti che le differenze tra l’uno e l’altro siano date non dal talento ma da fattori esterni. Lo abbiamo già detto: speriamo che le esaltazioni di oggi non debbano essere riconsiderate domani…
Per il resto il Tour ha avuto molti protagonisti, purtroppo ben poco italiani: dalla grande corsa francese si proiettano verso un autunno caldissimo (soprattutto nelle classiche) gente come lo svizzero Marc Hirschi, il tedesco Leonard Kamna, soprattutto il belga Wout Van Aert, tutta gente che nella Campagna del Nord è attesa a grandi imprese. Un’impresa vera l’ha compiuta Damiano Caruso, che per l’ennesima volta ha dimostrato di saper interpretare il Tour come pochi altri centrando finalmente quella Top 10 tante volte cercata e resa molto più difficile dal fatto di non avere la minima libertà di manovra, dovendo correre al servizio dello spagnolo Mikel Landa, finito quarto al termine di una corsa anonima. Onore delle armi invece all’australiano Richie Porte, tante volte preso in giro per i suoi fallimenti alla Grande Boucle, considerato buono solo per le corse a tappe medio/brevi e che a fine carriera ha finalmente dimostrato con questo podio che senza tanti infortuni fisici e cadute, anche nei grandi giri avrebbe potuto dire la sua. Noi eravamo convinti del contrario, ogni tanto fa piacere doversi ricredere.
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